1960 - SALVO MONICA SCULTORE dal Corriere di Sicilia, Catania 31 Gennaio 1960

 

 

        La scultura di Salvo Monica fuori dalla polemica nella tecnica e nelle forme come il saldo gruppo « Le comari » esposto alla VIII Quadriennale di Roma, è nell’ « ordine » che tutela la tradizione della migliore arte italiana.

        Dirò subito che se tanta critica non fosse legata a interessi, anche di semplici amicizie, con gli…« arrivati »?, e con certo meccanico manierismo di oggi, Monica avrebbe già trovato i suoi convinti assertori in chi nell’arte sente la poetica bellezza della vita.

        Occorre prima dire che Monica è lega di classico e moderno ed opera nell’ambito di una tradizione in evoluzione col tempo. E la scultura, Monica, quella delle forme e dei volumi conclusi, se la sente mescolare nel sangue come una realtà vivente. E’,  Monica, l’evocatore di una bellezza il cui soffio animatore viene da una coerente compostezza che pochi artisti possono vantare.

        Tutto intento a cercare dentro l’essenza emotiva della sua scultura, opera scorciando masse e squadrando piani « monolitici ». Sfrondata l’immagine da ogni particolare, s’impone per una forza istintiva erompente da poche linee volte a concludersi in una consonanza di ritmi.

        Non può aversi una chiara visione dell’arte di Monica se non si conosce il cammino compiuto, i passi che sin dall’inizio lo portano a modellare forme tutte percorse da sentimento ed estetiche sobrietà. Occorre per questo esplorare quanto gli ha dato la sua educazione artistica. A dispetto della guerra sferrata all’ « Accademia » dagli aggiogati agli « ismi », invitiamo tanti a passare attraverso il « vero » di Monica, bloccato e trasceso da una rigorosa formazione.

Indicativo è il disegno « La mia famiglia ». Monica ritrae ben otto persone ( sé compreso ), con trascesa interpretazione del vero, tutte assorte in conversare e domestiche occupazioni, da porre in serio imbarazzo perfino artisti consumati. Monica non contava allora che diciassette anni. E sono di allora molti ritratti come quello di Padre Alberto Trigilia, i disegni « Mia sorella » e « Autoritratto », i ritratti « La sorella », « La zia », lo studio di nudo ed il nudo femminile, fino alla medaglia vincitrice della borsa di studio nei due versi della quale il giovane artista dimostra di essere padrone della tecnica e di un mondo figurativo, nel delicato eppur vigoroso bassorilievo « Balilla ».

        Ed ancora nella medaglia « Artemide » ( 1° premio della Scuola della Medaglia – Roma, e nel « Narciso » ( 2° premio idem.), dove un soffuso pittoricismo pone la riflessa figura del giovinetto in un tremolante ampliarsi di cerchi concentrici che fanno viva e reale la scena dello specchio d’acqua.

        Sin qui, l’ « accademismo » di Monica, cioè quel salutare esercizio che educa ed esalta e la cui sorgente è la sincerità disposata ad una maturità di mestiere carente oggi nelle generazioni arroccate nel disordine.

        Un ritratto « Ragazzo »del 1941, mostra nuovi orientamenti della plastica di Monica: un modellato più fresco, meno tormentato, con meno ricerca della preziosità per la superficie e tutto volto a concludersi in zone compatte ( come le ciocche di capelli non più partite ), in superfici grezze. La provenienza « rossoiana », impressionistica , inizia un nuovo fraseggiare. Suggella , possiamo dire, questo suo primo momento, una siracusana Personale del giugno 1945 dove alcune sculture e l’altorilievo « La Carità » ( Ispica, cappella Giani ), puntualizza questo suo amore per le superfici fluide e per un certo sapore decorativo che tende a fissare sentimenti ed espressioni in una maggiore sfera di immaterialità.

        Rivela in quest’opera un definitiva tendenza a spiritualizzare la materia  svuotando il contenuto da tutti i possibili particolari, possiam dire, « terreni ». E il tutto, in questa assai notevole opera, tende a definirsi e concludersi in forme scultoree « vive », mosse dal ritmo calcolato delle mani della  Vergine e dei piedini dell’Infante mosse come in un linguaggio tessuto di taciti sottintesi disposati a velati sorrisi. La mano che nell’abbandono del braccio « conversa » col piedino del prospero bambinello, ci ricorda la corregggesca « Zingarella » di Napoli.

        Si potrebbe spigolare ancora con profitto nella produzione di questa sua fase decisamente formativa, ricca di linfa, rilevando magari qua e là inesattezze sintattiche ora soverchiate, inesperienze o affrettata realizzazione, ma siamo decisamente verso il definirsi di un rigore plastico che sfocia nei due legni « Donna seduta » e la « Seminatrice ». Queste due opere ci sorprendono presentandoci uno scultore già maturo, come destato da una stasi lunga e meditativa. Due opere ligee che mostrano una sostanziale « decantazione » di particolari elementi compositivi completamente deposti, abbandonati nel repertorio di un certo realismo che pur abbiamo riscontrato filtrato da una risonanza di sentimenti tradotti in raffinate eleganze, chiusi in forme salde.

        Fattore psicologico e maturità, nuovo e più approfondito senso della vita: la guerra. La guerra lo ha allontanato materialmente dalla scultura e dall’arte per circa sei anni. E le cose sono mutate prima che in superficie, cioè nelle forme, nell’animo suo che attraverso le sue sculture sembra rassegnatamente incupito, religiosamente ( religiosità della vita soprattutto ) acquistato in masse tozze, vigorose, in superfici scabre dove la sgorbia ha lasciato vive, senza pentimenti e ritorni, le « ferite » del suo urgere verso la conclusione di una umanità che si contrae e si satura  nella materia. Quanta dolorante e rassegnata umanità erompe da queste due sculture, quale represso e consapevole responso del vero della terrena esistenza. Queste due figure dallo sguardo assente, lontano, senza direi un bagliore di luce divina e una meta lontana, sembra non debbano più volgere lo sguardo verso il cielo, levare gli occhi supplichevoli e speranzosi verso la luce eterna. Eppure la loro profonda rattenuta, trascesa e commossa umanità, le rimette in piedi e le valorizza, le fa pie e madri, umane oltre il limite estremo della vita e le fa vivere oltre il tempo. E ciò perché tutto è ricondotto a forme salde, a strutture massicce, ad una rigorosa, geometrica struttura figura fisica.

        Un ottogonale fonte battesimale per S. Maria Maggiore di Ispica, lo porta a trasferire la tecnica di questi due legni, del « non finito » negli otto pannelli che con l’« Annunciazione » ( bellissima particolarmente la Vergine raggiante di purezza, come avvolta in un ovale che tutte le linee, le pieghe, riporta a raccordarsi verso la serena levigatezza del volto, nodo dal quale si sciolgono ), la « Visitazione », la « Natività » che non nasconde simpatie per il grande Della Quercia, il « Battesimo », la « Resurrezione di Lazzaro », la « Flagellazione », la « Resurrezione ». Quanto amore, quanti affetti, quanta perizia in questo suo tanto impegnativo lavoro.

        In una « Discesa di Croce », sembra rinverdire l’amore per le superfici levigate, tornite, per il particolare. Ma scrutando più a fondo si sente l’obbligo del committente. Eppure, è questa un’opera mirabile, che fa onore a Monica e che domani costituirà uno dei punti di evoluzione della sua scultura. Perché pur affiorandovi qualche reminiscenza giovanile, si scorge anche, dove il compromesso lo lascia libero, che non manca di fare affiorare la sua seconda natura; lo attesta non soltanto il rustico del fondo ma anche lo « slancio » delle figure a rilevarsi dal fondo come gruppi spinti da quelle scabrosità che l’artista va puntualizzando attraverso la superficie rustica: il non il « non finito ». da qui la preferenza per la scultura pura, una materia calda che meglio definirà questa sua preferenza per il grezzo che da solo dona all’immagine il calore che egli ha cercato di ottenere dal marmo o dal legno, dall’argilla o dal bronzo.

        Lasciando la « Maria » esposta alla Mostra dell’Arte nella Vita del Mezzogiorno d’Italia ( Roma, 1953 ), ed altri notevoli ritratti, ci fermiamo alla « Pietà », all’ « Impiccato » ( I Biennale Nazionale di Venezia, per invito), al  « Frate Francesco e il lupo » ( legno ), salda un periodo assai onorevolmente. Si impadronisce di questo gruppo un decorativismo composto di linee che s’inarcano, di ondulazioni che si compensano, di semplice e castigata duttilità che le graffiature della materia, tutta la linea che circoscrive il gruppo, il gesticolare lento e carezzevole, caratterizzano.

        Ed ecco in onore la materia tanto cara ai giuochi luministici e chiaroscurali della scultore. Una materia duttile sulla cui corposità ha grande effetto la luce, una luce che si tinge dell’aureato colore della pietra stessa ( l’arenaria ) e ridona i suoi effetti senza mai irrigidire movimenti ed espressioni.

        « Maternità » plastica e non priva di sapore espressionistico, saldamente bloccata nel concluso gruppo materno, vigorosa nell’impianto anatomico; i « Fuggiaschi », esposta alla VII Quadriennale di Roma,  tendente a modellarsi in forme accentuatamente geometrizzanti; il « Pastore », la « Madre » ed altro sono punto d’arrivo e d’incontro della scultura di Monica che in questo momento ha toccato delicati sentimenti.

        Invano in questa opera si cercherebbe qualcosa che non convince. E’, questo momento, il più significativo della poetica di Monica, e alcuni ritratti contemporanei, appartenenti allo stesso momento, parlano un più duttile e articolato linguaggio.

        « Le comari », opera esposta alla VIII Quadriennale di Roma, segnano una tappa importante insieme al gruppo delle altre opere in pietra arenaria ed ai ritratti ultimi e particolarmente con il gruppo « Ai piedi della Croce » ( inedito ) in cui l’artista scopre la sensibilità dell’animo suo in un rotatorio ritmo di volti.

        Monica è artista che andrebbe più seriamente impegnato. Potrebbe ben lasciare, nella sua Siracusa, opulenta di fastoso passato, un gruppo di opere fortemente innervate dello spirito di questo momento. La pietra e il marmo, il legno e il bronzo, si trasformano nelle sue mani in creature sensibili, messaggere di un mondo pregnante di religiosità della vita e di una controllata estetica che echeggia voci lontane, intimi affetti ed una sensazione che fonde sacro ed umano, divino e terreno.

        Certe eleganze, certe risorse decorative, certa nobilitazione della materia e possiamo anche dire certi compiacimenti in abbandoni decorativi, sollecitati dallo animarsi della materia tradotta in vita dello spirito, slargano il cuore. Trovarsi attorno le scultoree creature di Monica, significa destarsi in un mondo diverso dall’umano dove la vita ha deposto il peso della materia.

        Monica, in questo momento, è nella fase felice della sua arte. Equilibrio, armonia, senso delle proporzioni, sono le voci univoche di un linguaggio che appartiene tutto ed unicamente alla limpida sorgente dei suoi sentimenti.

 

Alfredo Entità

dal Corriere di Sicilia, Catania 31 Gennaio 1960