1963 - UMBERTO MOGGIOLI ALL'ALA NAPOLEONICA

 

 

 

     Di quanto conforto ci è la retrospettiva di Umberto Moggioli all’Ala Napoleonica e la bella monografia di Umberto Perocco venuta alla luce contemporaneamente a questa tanto salutare quanto giusta e opportuna manifestazione, ben sappiamo noi.

        Un anno fa, scrivendo di una riuscitissima mostra di Artisti Trentini, viventi e non, a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, organizzata con la serietà e la compostezza delle grandi rassegne e come tale salutata dalle cronache e dalla critica e dalle conversazioni radiofoniche, in un nostro articolo intitolato « Artisti Trentini a Roma » apparso in queste stesse colonne e riportato per intero da un grazioso volumetto che la Sezione di Trento del Sindacato Italiano Artisti Belle Arti ha inteso di stampare di recente a ricordo della bella e davvero indimenticabile manifestazione, dicevamo:

    « Il comitato organizzatore, come nelle grandi rassegne nazionali e internazionali, ben ha fatto ad includere le retrospettive degli artisti trentini scomparsi, chi di recente chi da un trentennio, come Angelico Dallabrida, Tullio Garbari, Umberto Moggioli, Gino Pancheri e Fortunato Depero, quest’ultimo degno di essere riproposto e rivalutato da una prossima Biennale Veneziana dove Depero espose sempre e sempre fu ammirato e favorevolmente discusso dalla critica più provveduta e intelligente ».

     E plaudavamo al comitato organizzatore composto dallo scultore Luigi Degasperi e dai pittori Bruno Colorio, Mariano Fracalossi, Guido Paolo e Remo Wolf, perché con generoso spirito di rinuncia, con nobiltà di intenti, avevano saputo sacrificare un po’ se stessi ( la mostra in definitiva era per artisti contemporanei ) per fare ala ai morti, agli scomparsi, che nelle rassegne portano via quasi sempre, in tutti i sensi, qualcosa del successo dei viventi affermati e non. E lamentando la possibilità mancata di concedere più spazio, di rappresentare cioè meglio gli scomparsi, scrivevamo:

     « Garbari, travagliato da ossessioni religiose, attende una valutazione come la attendono Moggioli e Pancheri, succosi e briosi coloristi e artisti di non trascurabile interesse…» 

     Che altro avremmo potuto e dovuto dire? Volevamo una rassegna completa degli scomparsi e tra questi Umberto Moggioli che il Comune di Venezia e per esso la Galleria di Arte Moderna del Comune e per essa il suo Direttore e noto studioso Guido Perocco ci hanno dato, consapevoli coscienti dei valori di certi nostri artisti del Primo Novecento  degni in tutto di essere riproposti, fatti meglio conoscere, portati alla ribalta della critica e del pubblico per valorizzarne l’opera anche internazionalmente e per contrapporli…e perché no, a quanto di involuto e di scandaloso va proponendosi da parte di certi enti responsabili alla giusta ed onesta valutazione dell’arte contemporanea.

     Ecco ora Umberto Moggioli all’Ala  Napoleonica, in una solare rassegna ordinata dal Perocco, raggiare lo splendore di una tavolozza ricca di toni e succhi spremuti con l’animo commosso della poesia musicata di Venezia, dagli angoli di serena e dolce pace, dal beato e silente riposo di paradiso che alita dolcemente da ogni casa e da ogni cosa, da ogni angolo e dal tutto dell’Isola di Burano che ben possiamo chiamare, per il periodo che ci riguarda, l’incanto dell’isola di Umberto Moggioli, la sua magica camera oscura. Infine Roma, suggello dell’opera stemperata nella sua più alta poesia tonale ed un po’ tappa ultima di una vita consacrata all’arte,

     Se ci lasceremo poi guidare dalla lettura della monografia del Perocco, scopriremo un Moggioli tutto anima, tutto vibrazioni cromatiche, tutto atmosfera risonante di voci del cuore, il cantore lirico per eccellenza di Burano e colui che dell’isola ha colto tutto quanto andava colto, gli aspetti cioè meno appariscenti ma i più delicati di sentimenti, di contenuto lirico, spirituale, quegli aspetti che da sempre hanno cercato nell’isola, non rumorosi e folleggianti turisti, ma spiriti incantati dalle delicate voci della natura sussurrate a fior di labbra, percepite da spiriti in preghiera, elevati al rango di poesia purissima e di paradisiaci incanti, di contemplazione dell’eterno e del divino ch’è possibile oggi riscontrare e rivivere nelle tele di Moggioli esposte all’Ala Napoleonica, in quel singolare salotto, unico al mondo, di Piazza S. Marco. Ed è la cornice che Moggioli meritava, il lauro che troppo a lungo si è fatto attendere e che ben da tempo gli spettava di cingere.

     « Il trentino Umberto Moggioli era venuto a Venezia nel 1905 con una borsa di studio ed era dotato di tali qualità per la pittura che fu riconosciuto subito tra i migliori dell’Accademia, ammesso poco più  che ventenne alle Biennali del 1907 e del 1909; ma poi fu tra i primi che si chiusero nell’eremo di Burano nel 1911, convinto che bisognava ricominciare da capo con la pittura (aveva fatto gli studi all’Accademia di Belle Arti di Venezia), lontano dall’Accademia e dalle suggestioni  della Biennale, a contatto della natura».

     « Il quadro “Giardino di sera” ammesso al concorso della Biennale del 1907, segna il punto della giovinezza di Poggioli; un dipinto che non poté sfuggire a dei giudici ben legati alla tradizione ma che avevano lunga pratica del mestiere: il giovane artista aveva saputo guardare Guglielmo Ciardi, ma aveva saputo andare più in là».

     Perocco inquadra il rinnovamento pittorico di Moggioli in quel rinnovamento che si attua in Italia nei primissimi del Novecento, in quello che precedette la prima grande guerra mondiale. E si comprende benissimo come stazione di partenza per il rinnovamento sia Venezia con tutte le sue manifestazioni ed i succhi vitali degli scambi culturali che le manifestazioni di qualsivoglia natura apportano. E soffermandosi sull’Accademia di Belle Arti, forse la più sonnolenta e ritardataria, ancorata ancora all’inerte accademismo fine secolo, mette in risalto l’apporto positivo dato al rinnovamento da un gruppo di artisti che all’Accademia operavano con animo e spirito aperti ad un’aura che soffiava impetuosa da quello spirito naturale di ribellione che si sentiva e poteva cogliersi al di sopra di tutte le remore del languente Ottocento ridotto ad un freddo ricettario di forme e di colori e staremmo per dire ad un esangue ed accademico manierismo.

     Ed ecco le personalità di Guglielmo Ciardi e Luigi Nono, Alessandro Milesi e Bartolomeo Bezzi imporsi e segnare un momento di « trapasso ». Ed ecco ancora le rivoluzionarie figure di primo piano, giovani che frequentavano l’Accademia e la scuotevano dalle fondamenta, Modigliani, Boccioni, Martini e poi  Moggioli, Valeri, Garbari, Castrati, Semeghini, Gino Rossi. In seno alla Biennale si agitano le acque tranquille e stagnanti e dopo un periodo di incertezze e disorientamenti ci si accorge che in seno ai giovani irrompe impetuoso un imperativo di rivoluzione. Ed ecco ai torti e alle indecisioni della Biennale porre riparo le manifestazioni indette da Ca’ Pesaro che accoglie e incoraggia i giovani in tutto quanto fermentava e ribolliva di nuovo nei loro spiriti. Ed è Ca’ Pesaro che nel 1909 fa conoscere Moggioli con una scelta di 28 opere; dopo di che, Moggioli, convinto ancora « che bisognava cominciare daccapo », « si chiuse nell’eremo di Burano », « lontano dall’Accademia e dalle suggestioni della Biennale, a contatto della natura », la grande ed insostituibile maestra, aggiungiamo noi, per chi è capace di intenderla e coglierne la intimità, la vita ed i sentimenti nei suoi più diversi aspetti. « Giardino »di Moggioli , l’opera che lo addita foriero di un rinnovamento, è colta dalla Natura passata attraverso la pompa filtro dei sentimenti del giovane artista, anima piuttosto sentimentale, melanconica, bucolica, emotiva.

 

      « Il paesaggio - scrive il Perocco – si presenta in una inquadratura estremamente semplice: un filare di alberi in controluce ed una  muretta in primo piano; la ricerca poetica si stempera nel rapporto tonale delle fronde su un tono caldo, di diffusa luminosità viola, creata dal tramonto. Gli impasti sono ancora turgidi con ocra e bruni, in una tavolozza che si forma dalla esperienza ottocentesca di G. Ciardi, alla quale si aggiungono una vibrazione nuova, con una eco della pittura più fresca e più viva: influssi appena avvertiti nell’aria o intravisti in qualche quadro della precedente Biennale: c’è già quel tanto che rischiara di sottili venature l’atmosfera, una morbidezza tonale di luci al tramonto che ha origini da una stato d’animo aperto all’incanto del creato ed immediato nei suoi riflessi sul dipinto, senza sfoggio di bravura, dimentico anzi delle ferree leggi della prospettiva, in favore di una adesione spontanea alla emozione che rompe gli indugi con la scuola ».

 

Ed ecco Moggioli dividersi tra pittura « borghese » e ritratti, tra commissioni come quella della decorazione della Cassa di Risparmio di Rovereto assunta assieme ad Augusto Cézanne, quella del Palazzo della Magnifica Comunità di Cavalese, pure con Cézanne, sino a Casa Baisi a Trento. Notevole, in questo periodo, il ritratto di Cesare Battisti, l’eroe trentino di cui Moggioli fu tanto amico e compagno in guerra.

     E’ nella Biennale del 1910 con « Villa Glori » dipinto a Roma che mostra di volersi liberare degli insegnamenti e suggestioni di Ciardi, sensibile al divisionismo di Segantini che fortunatamente  resta episodio isolato. Sono certe « tonalità azzurro-viola tenui da pastello del cielo… a rivelare la preferenza dell’artista, il suo accento personale, in una ricerca di una prospettiva dettata da valori tonali più che da elementi formali, sulla trama di un racconto particolareggiato dei prati e dei grandi alberi in primo piano che proiettano l’ombra azzurra contro il pendio inondato di luce.

 

     Con questo quadro – continua il Perocco – Moggioli conclude un periodo di attività iniziata alla Biennale nel 1907.

      Ed ecco una nuova ventata portata dalla campagna sferrata da F. T. Marinetti contro l’arte « passatista », e l’arte davvero nuova di Boccioni, Gino Rossi, Teodoro Wolf Ferrari sino al diciottenne trentino Tulli Garbari che irrompe  con ben trentasei opere gonfie di rinnovamento, con idee rivoluzionarie che costituiscono certo una spinta non indifferente alla sensibilità e all’animo così aperto di Moggioli. Garbari e Moggioli erano – si tenga ben presente – della stessa pasta trentina, e deve il Nostro fare uno sforzo non indifferente per sottrarsi alle seduzioni di Garbari e a quelle borghesi di Venezia. E lo compie, lo sforzo, relegandosi nell’isola di Burano.

 

     « Garbari… dà una voce umana agli alberi e un senso di preghiera al lavoro degli uomini dei campi » scrive Perocco con accento di poesia, calandosi nello spirito della pittura di Garbari. Un po’ aggiungiamo noi, suggestionato dalla religiosità sociale e dai sentimenti cristallini di pietà umana che irrompono impetuosi dall’opera certo conosciuta e attentamente studiata, del francese Millet.

     L’incanto di Burano ha dato i suoi frutti succulenti ed ha maturato in Moggioli  quello che si dice lo stile moderno. Un nutrito gruppo di opere, di paesaggi in particolare, attesta questo momento che di fatto finisce nel 1915: quando scoppia la prima guerra mondiale, legato da fraterna amicizia con Cesare Battisti, parte volontario per il fronte. Qui l’artista si ammala, e dopo il calvario da un ospedale all’altro, viene riformato, lasciato libero di dipingere ancora. E si ha un momento, passato a Cavion, presso il Lago di Garda, che « costituisce un felice intermezzo alla sua opera dopo un anno di forzata inattività come artista. Innanzi ai quadri di questo momento si ha l’immediata percezione della nuova ricerca luministica…», e si riscontrano toni affievoliti ed un maggior interesse per i contorni pare più osservati, mentre la figura diviene elemento pare complementare della composizione paesaggistica. Sono i frutti dei contatti con Gino Rossi a Burano, reduce dalle suggestioni di Van Gogh e Gauguin.

    E finalmente, nel 1916, è a Roma, a dipingere con Rizzi cartoni per i mosaici del monumento a Vittorio Emanuele; lavoro non congeniale ai bollori della pittura, e finisce con abbandonarlo per ritirarsi liberamente a villa Strohlfern, dove « vi abita con sua moglie, in una baracca cui lo spagnolismo della Bohème ha dato il titolo composto di padiglione, ma i colori – chi guardi la « Casetta dell’orto », « Mattino di sole », « La casa dell’artista » - trasformano la capanna in una piccola sognante dimora piena di luce. Il sogno d’arte affascina tanto ancora l’anima del Pittore – qui il Perocco riporta fedelmente dalla monografia di Carlo Piovan – ch’egli quasi non si avvede dei gravi disagi ».

     Dal ’17 al ’19 «si compie l’ultima stagione della sua attività, che risente del nuovo clima e della luce di Roma ». « Burano e Roma, scrive Silvio Branzi, rimangono i luoghi della sua attività più feconda. Pittore di genuine doti native, tutto preso dal fascino della natura, M. aderiva… allo spirito dei luoghi in cui lavorava…» e sono ancora ricordi di Burano, lo spirito trasognato dell’isola, la tenuità di quel colore a disposarsi con quanto fermenta a Roma ad incidere l’ultima tappa della felice orchestrazione della sua sempre nitida e sempre brillante, luminosissima tavolozza.

     E Roma dà i suoi frutti fosforescenti con una serie di opere che attestano questo felicissimo momento, ultimo messaggio d’amore, amoroso connubio che disposa e Venezia e Burano e Asolo e le luminosità delle colline veronesi con quell’intenso movimento di rinnovamento pittorico che soffiava impetuoso a Roma e a Roma richiamava artisti irrequieti  e insoddisfatti delle conquiste sino allora raggiunte. Ed han fatto tanto bene, agli Artisti Trentini lo scorso anno, a portare Moggioli a Roma, in quell’atmosfera che accese di colori più vitali la sua tavolozza incorporandovi i bagliori della luce eterna di Roma.

     E tra tutti i venti che soffiavano a Roma in questi anni, è certo a nostro avviso che chi fa più presa e scuote l’animo aperto di Moggioli, è l’impressionistica sinfonia di colori di spadini, che a noi sembra vedere raggiare nei dipinti più belli e luminosi dell’ultimo Moggioli.

    « La casa dell’Artista » del 1918, della Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro a Venezia e meglio ancora « L’Eremita Ortolano » pure del ’18 di Casa Mogggioli a Burano, sono le ultime perle o monete di scambio che rivelano un Moggioli personale innamorato sincero e spontaneo della tavolozza e dei soggetti del grande Armando Spadini. E fu certo Moggioli, nel suo soggiorno romano, e con la sua solare spontaneità, l’artista che più dovette accostarsi all’arte e al mondo poetico, musicale, all’incanto di Spadini.

      E cosa attende la Biennale a darci una grande rassegna di Garbari, Spadini e Moggioli? Sarebbe di grande utilità per la gioia di tutti e per gli studi ulteriori su questo grande ma poco conosciuto momento dell’arte italiana. In ciò il Perocco,  assecondato dal Comune di Venezia, ha davvero tanti tanti meriti. Soprattutto per le pagine di autentica poesia critica della monografia su Moggioli, degnamente realizzata, nel nitore della stampa e bellezza delle grandi tavole a colori, dall’Istituto per le Arti Grafiche di Bergamo.

     Ed abbiamo sentito il bisogno, abbiamo di proposito riportato quanto più potevamo delle pagine critiche del Perocco, perché ha scritto su Moggioli così come l’artista dipinse, commosso della stessa poesia,  incantato dalla stessa musica, soggiogato dallo splendore luminoso della stessa tavolozza.

     Pagine critiche dense di storia e di pensiero di quel momento della nostra arte che vanno conosciute, lette e meditate. Tanto più che si leggono con diletto, e si giunge alla fine senza accorgersi, tutto d’un fiato, lamentando semmai che questa dilettevole favola critica, ripetiamo, densa di storia e di critica estetica, non continui, sia stata breve. Ma è bastata lo stesso a riempirci il cuore di gioia e ad illuminarci. Ben vengano, fatiche di questo genere, a sollevarci da certa depressione a certi avvilimenti di certa presunta arte, oggi.

 

Alfredo Entità

Da Scuola Salesiana del libro 1963