1960 - LA XXX BIENNALE di VENEZIA “ SETTE PITTORI D'OGG ALL'ALA NAPOLEONICA”

 

 

     Chi avvilito lascia il padiglione italiano della XXX  Biennale e sfiduciato volge i passi verso il centro della così tanto beffata Regina della Laguna, giunto a Piazza S. Marco, oltre a sentirsi  slargare il petto dall’atmosfera di singolare bellezza del « più bel salotto del mondo », riandando con la mente all’insulto della tela di sacco premiata proprio dall’ Associazione Internazionale dei Critici d’Arte ( sarebbe meglio dire, solo da alcuni componenti in veste di consulenti della Biennale e non in quella ufficiale di rappresentanti dell’internazionale associazione ), ai gessi « impastocchiati » di scialbi colori da quest’altro grande miracolo ( …e meno male ch’è piovuto, se no, povero mondo, ancora privo di tanto evento ) ch’è Jean Fautrier, alla vedovanza ( che perseveranza…) di Emilio Vedova e ai nodosi tavolazzi di Pietro Consagra, può ancora sperare in una sana ripresa dell’arte, varcando la soglia dell’Ala Napoleonica dove Sette Pittori d’Oggi, figurativi e astrattisti, arginano la dilagante vergogna del padiglione italiano della XXX Biennale.

     È  un peccato che il lavoro e circostanze diverse non ci abbiano consentito di pubblicare tutto quanto annotammo sulla XXIX Biennale nella nostra visita di chiusura. Ma prevedevamo  lo stato di vergogna e di corruzione creativa in cui sarebbe caduta la XXX edizione di una rassegna che prima il mondo intero salutava come aura di civiltà. E ci ha fatto tanto male, due anni or sono, leggere su una rivista straniera ( ma l’archivio della Biennale ne è ben a conoscenza ), che la legge Merlini non aveva funzionato soltanto per la XXIX Biennale. Avevamo annotato ( ma forse lo abbiamo anche pubblicato – non abbiamo il tempo di andare a riscontrare quanto pubblicato per la XXIX ), che erano gli stranieri a tenere su l’internazionale rassegna e che in molti degli artisti dei paesi del blocco sovietico – come in questa XXX – notavamo compresse energie creative e coloristiche che, se lasciate libere di manifestare pienamente il proprio temperamento, ci avrebbero ben insegnato tante cose.

     Dicevo, nei miei appunti, più esplicitamente di quanto pubblicato, che il padiglione italiano era in uno stato di vergogna, e che dei prefatori o presentatori dei singoli artisti, si trastullavano a torcere parole su parole, vacue e senza senso, senza relazione alcuna con quello a cui volevano riferirsi, vuote nella forma e nel contenuto, verbosi sino alla noia e alla nausea. Che in tutto questo non si nasconda qualcosa di convenuto e programmatico di natura politica?

     La XXX Biennale di Venezia ha infranto tutti i limiti della decenza precipitando nel ridicolo e nel grottesco la dignità dell’arte, dimostrando nei suoi teorici sostenitori un efferato accanimento contro la universale avversione di chi, con l’acqua alla gola, si attacca a tutto pur di stare a galla finché le stremate forze, vicine a cedere glielo consentono.

     Ma di questo accanimento a discreditare ad ogni costo la manifestazione veneziana, a vantaggio dell’estero che sta movendosi abbastanza per toglierci questo nostro primato, scriveremo ampiamente a breve scadenza nella fiducia di contribuire ad arginare le soverchianti e prepotenti forze corruttrici dell’arte italiana, che offendono il loro stesso universale passato che si cerca di pervertite con l’esaltazione della presente corruttela.

     Quello che qui conta far rilevare è come questi sette artisti spiritualmente sani, professionalmente preparati, abbiano avvertito il bisogno di non far sentire con la presenza delle loro opere, la delusione della Biennale, specie agli stranieri che infiniti visitano Venezia durante il periodo estivo.

     Sarebbe salutare che la mostra restasse in piedi per tutto il periodo della Biennale, acché gli stranieri possano constatare che l’arte italiana non è solo l’obbrobrio del padiglione dell’Ala Napoleonica, nel corso di questa internazionale rassegna.

     La XXX rassegna ha scientemente precipitato nel baratro ogni limite di dignità artistica, dimostrando nei suoi teorici sostenitori una caparbietà ed un accanimento senza precedenti, tutti tesi unicamente a discreditare la nostra rassegna a vantaggio di altre non sappiamo quali e dove.

     E chi non sa che compito della Biennale è quello di mostrare il nuovo, di sviluppare tendenze che rinnovino il linguaggio, la tecnica dell’arte che è sempre una nell’altissima sfera della creatività e divina spiritualità? E a questo volete giungere con stracci e cenci raccattati, con rottami di ferro arrugginiti, coi buchi e le pareti di latta lustrata di nero? Ma davvero la vostra cecità è a tal punto? Vedere e trovare l’arte solo nei rifiuti? Solare esempio Ricasso ( ma non è proprio il caso di scomodare Cézanne, Renoir, Van Gogh, Gauguin, Fattori, Rosso, Modigliani, e tanti altri stranieri e nostri…perché vi sono molti nostri della statura dei francesi, signori della Biennale ), ci indirizza verso vie più nobili, più alte, verso un tormento della fantasia e dello spirito tesi ad ascendere e non a discendere precipitosamente, a rovinare nel letame degli stracci di pessima e ributtante materia.

     E poi, i grandi quotidiani e settimanali del nord, spediscono inviati in Sicilia a fare inchieste sulla mafia. Ma esiste oggi forse in Italia Mafia più pericolosa nei suoi metodi estetici, della Biennale di Venezia che ha infettato e pervertito un più sacro e duraturo patrimonio per il mondo intero?Che ha intaccato letalmente lo spirito dell’arte dei popoli tutti e che tale degenerazione incoraggia addirittura co grossi premi, col pubblico danaro, col sudore di chi produce, e fiducioso attende una parola di conforto e di sollievo, di educazione e di alta spiritualità, dal divino soffio ( stracci, ruggine, buchi ) creatore dell’arte?

     La perversione a cui abbiamo accennato non potrebbe essere consentita nemmeno se la Biennale fosse strettamente personale, una gestione di azienda privata, varcando, gli effetti letali di tanta corruttela, la soglia del proprio recinto e investendo indistintamente la spiritualità di tutti, corrodendo e offendendo il meglio della vita di tutti i popoli.

     Non è una contro-Biennale quella dei Sette dell’Ala Napoleonica di Piazza S. Marco, ma una libera rassegna di giovani che credono nell’arte stato d’animo e commozione, e che sarebbe certo nata nello stesso tempo anche se non vi fosse stata in atto la banale mascherata ( padiglione italiano  solamente ,  sempre ) della « grande arte  », dell’ « arte nuova »,  « progressista » e « infernale ».

     Così Saverio Barbaro, Renato Borsato e Giorgio Dario Paolucci veneziani, Giuseppe Gambino nato a Vizzini ( nostro ) che da tempo desideravamo incontrare, sia pure nella sua arte, com’è avvenuto; Alberto Gianquinto, nato a Venezia, ma che noi a buon diritto consideriamo siciliano come Giancarlo Licata nato a Torino, e Cesco Magnolato nato a Noventa di Piave. Tutti giovani d’età, leve dal 1926 al ’29, maturi nel mestiere e nello spirito. Formidabilmente preparati e con un mondo in ebollizione genuino, denso di calore e di spontaneità, d’intimità e amore per la vita, sorgente unica questa da cui può scaturire e scaturisce l’arte intesa in tutta la sua incommensurabile spiritualità.

     Tutti giovani che han sentito e sentono che quella della pittura, di parlare agli altri donando il godimento del bello, è una missione divina, alta, di grande responsabilità, e che non può pertanto giammai farsi con materia vile e scostante come gli stracci di juta e la latta arrugginita o sporcata di nero, con tavole bruciacchiate o con tavolacci con inchiodati ritagli di bronzo, con foracchiature ed altro. Le facciano entrare nei loro affetti e intimità tutte queste belle e insuperabili cose, le tengano al posto del ritratto della mamma e del padre, della propria piccola dai riccioli d’oro e della creatura adorata, degli amici ed altre persone e cose care. Se le portino tutte codeste belle cose nei loro studi, nella stanza da letto o sala da pranzo, nel salotto e nel sacrario dei loro affetti più cari e le sostituiscano, abbiam detto, con la « noia » e la « retorica accademica » delle figure e del paesaggio del passato e con quant’altro desiderano.

     La Mostra dell’Ala Napoleonica, abbiam detto, ridona la fiducia perduta, ristora dall’abbattimento, delusione, nausea piena, dal ricordo di quanto uno dei responsabili di tanto avvilente mascherata, gesticolando e bofonchiando, certo per dare con tale messa in scena più forza e valore al suo dire, diceva al Ministro allibito, durante la visita pomeridiana al padiglione italiano: « Veda questa, questa superficie di latta dipinta di nero, è l’opera più coraggiosa e coerente di tutta la Biennale ».

     Dirò in seguito quale la faccia del Ministro Medici e di molti del seguito, convinti tutti che qualsiasi  imbecille può prendere una superficie di latta e sporcarla di nero.

     L’arte, Signor Cesare Brandi, è solo quello che uno con la divina fiamma creativa donatagli da Dio, può creare – Leonardo e Michelangelo possono bastare per tutti – e no ciò che un qualsiasi individuo, muto o sordo, cieco o demente, in piedi o coricato, sveglio o dormendo, può fare. E’ lei ben sa, signor Cesare Brandi, che l’arte vera e grande non si arriva nemmeno ad imitare o a copiare nel soffio animatore ch’è la divina vita dell’artista, la sua grandezza e la sua genialità. Simili incongruenze non si dicono, perché ci si rimette tutta la dignità di una vita ( e Lei ne ha tanta ) e si offende tutto e tutti, nulla escluso del grande, grandissimo, universale passato. Ma lei crede che occorrevano tante e tante migliaia di anni per far finalmente capire che l’arte è rifiuti ( si vedano le « scultura » - le chiama « composizioni » - di Tadahiro Ono), stracci, ruggine e foracchiature? Che nessuna intelligenza umana era in grado di percepire, intuire tanto? Ma avremo occasione di parlare a bella posta di queste cose.

     Qui occorre dire (visitammo la Mostra poco prima di lasciare Venezia, quasi alla mezzanotte del 22 giugno) che la esposizione dei Sette, è vero e pieno godimento, generato da sincero amore e calore per quanto affiora dai loro sentimenti, entusiasmi giovanili emozioni. Si sente la piena effusione del colore ( la vita della vita è soprattutto colore – calore – vita ) ed una coerenza fatta di personale linguaggio e di una grande fede nella validità dei propri sentimenti, dei sinceri moti dell’anima.

     La solare introduzione alla Mostra scritta da Pietro Zampetti e la sobria e quadrata presentazione di Guido Perocco, sono sufficiente garanzia alla scelta delle opere e alla comunanza degli artisti. Ed occorre leggere ed approfondire i due scritti per sentire tutta l’amarezza del « grande imbroglio » in cui è stata prostituita la Biennale XXX e il chiaro linguaggio evolutivo di questi dotati artisti. In essi è presente tutto il passato come stimolo ad andare oltre, a proseguire sul piano di una grande tradizione e dignità; e il linguaggio spontaneo, originale col quale si esprimono, è indice indiscutibile di sana preparazione e soprattutto di una vera e grande educazione artistica, anche astrattista, stando l’arte, non nella formula, ma nella sua alta spiritualità, creatività, sublimazione dell’idea fervida, divina.

     Grafia e tavolozza, forme e luminosità, equilibrio e larga orchestrazione di masse, impegno e amore, sono doti di questa schiera di artisti che lasciano ben non disperare sulla continuazione della nostra tradizione, di un domani fervido di opere di luminosa e poetica bellezza.

 

Alfredo Entità